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Il principio di esigibilità della pretesa normativa e le cause scusanti

In un ordinamento come il nostro, caratterizzato dal principio di colpevolezza, ed in cui la funzione della pena è interpretata in termini rieducativi, esiste un limite, non superabile, oltre il quale non si può pretendere dai consociati il rispetto della condotta doverosa, quella condotta, cioè, che in una determinata situazione è finalizzata alla tutela di un interesse giuridico meritevole di tutela.

Questo limite è rappresentato dall’esigibilità della pretesa normativa.

Esigibilità vuol significare capacità di poter pretendere da un soggetto l’adozione di quella condotta doverosa già menzionata. Ma vuol dire anche capacità, da parte dell’ordinamento, di saper attribuire importanza a quelle circostanze che, caratterizzando l’azione, acquistano un valore ostativo tale da rendere ragionevolmente impossibile percepire le richieste del diritto.

Poste queste premesse, è interessante capire in che modo questo principio può trovare cristallizzazione nel nostro ordinamento.  È possibile immaginare una causa extralegale di esclusione della punibilità in grado di attivarsi ogni qual volta sul contesto d’azione agisca una circostanza idonea ad acquisire prevalenza sulle richieste ordinamentali?

Indubbiamente, una soluzione di questo tipo sarebbe affascinante, in quanto renderebbe l’intero sistema giuridico-penale capace di orientarsi secondo diritto, attraverso un meccanismo di valutazione concreto che sappia esaltare l’isolato contesto criminoso. Tuttavia, è doveroso sottolineare, che una clausola di questo tipo sarebbe suscettibile di una potenziale sconfinata applicazione, con risultati che potrebbero incidere negativamente sull’imperatività del comando penale e conseguentemente sulle finalità general-preventive della sanzione criminale.

Proprio sulla base di queste contrapposte esigenze, il legislatore sembra aver trovato una soluzione equilibrata che da un lato attribuisca valore a ciò che può impattare in modo determinante sulle scelte d’azione consociati, e che dall’altro sappia inserirsi perfettamente nelle logiche di legalità e formalità che ispirano il diritto penale.

Parliamo delle scusanti, cause di esclusione della punibilità suscettibili di applicazione quando ricorrono alcuni presupposti, predeterminati dall’ordinamento giuridico, che renderebbero per chiunque impossibile conformarsi alla condotta doverosa, rendendo pertanto inesigibile l’alternativa condotta lecita.

Valore paradigmatico può essere attribuito all’art. 384 c.p., che esclude la punibilità di alcuni reati (contro l’amministrazione della giustizia), quando il fatto è commesso per salvare sé medesimo o un prossimo congiunto da un nocumento nella libertà o nell’onore. Si pensi ad esempio a chi agisca per eludere l’attività investigativa al fine di proteggere dal corso di questa un proprio congiunto. In questa situazione, da un lato c’è la richiesta dell’ordinamento nei confronti dei consociati, che si concretizza nel divieto di commettere azioni che intralcino la corretta amministrazione della giustizia. Dall’altro, tuttavia, emerge un motivo soggettivo, la necessità di salvare un congiunto dalle conseguenze negative eventualmente derivanti da quel procedimento, che rende impossibile per l’agente tutelare il bene giuridico, la corretta amministrazione della giustizia, verso il quale la norma incriminatrice tende.

L’ordinamento quindi, a questo motivo soggettivo attribuisce prevalenza rispetto all’esigenze di tutela del già menzionato interesse giuridico, rinunciando all’applicazione della sanzione criminale. L’esecuzione della stessa, infatti, non potrebbe soddisfare le funzioni preposte alla pena. Chi agisce per salvare un prossimo congiunto è perfettamente consapevole della commissione di un fatto vietato, percepisce con chiarezza che si sta muovendo in una direzione non voluta dal diritto, ma non può far altro che procedere in tal modo, perché sussiste, ed è valorizzata dal legislatore, la presenza di una circostanza che impedisce di agire nel senso desiderato dall’ordinamento. Invero, affinché la funzione rieducativa possa ottenere i propri effetti (almeno in via potenziale) il soggetto agente deve sentire, in un certo senso, la propria responsabilità, deve sentire come suo il fatto penalmente rilevante, deve essere nella condizione di comprendere che avrebbe avuto la possibilità di realizzare un comportamento diverso e di pagare (penalmente) proprio il non averlo fatto.

Se questa condizione non si realizza, la pena non può mai raggiungere il suo obiettivo.

Il 384 c.p., incarna proprio questo ragionamento. Il legislatore quindi determina in anticipo, attribuendogli un connotato di tipicità, tutte quelle situazioni in cui si può ritenere che, ragionevolmente, chiunque sia impossibilitato a conformarsi al diritto, “scusando” la commissione di un fatto comunque tipico.

L’utilizzo di questo meccanismo presuntivo garantisce al principio in oggetto di agire come mero fondamento giuridico e non come generale clausola di esclusione della responsabilità penale, disinnescando le problematiche che una formula di questo tipo potrebbe comportare e garantendo allo stesso tempo all’ordinamento quella già menzionata capacità di orientamento attraverso la quale questo può apparire “credibile” agli occhi dei consociati, capacità che si esplica attraverso modalità di valutazione oggettive e chiare, in un armonico rapporto tra imperatività del comando penali e scopi della sanzione criminale.

Merita di essere menzionata infine un’interessante conseguenza dogmatica di un ragionamento così impostato. Le scusanti, infatti, nella generale struttura del reato, differirebbero sia da quelle cause di esclusione della punibilità che escludono l’antigiuridicità, sia da quelle che escludono la colpevolezza.

Con riferimento alle prime, la differenza con le cause di giustificazione si identifica nella struttura integralmente oggettiva che caratterizza queste ultime. Quando è presente una delle ipotesi appena menzionate, l’ordinamento attribuisce rilevanza ad un motivo oggettivamente prevalente, un bene giuridico, quello da tutelare, di maggiore importanza rispetto a quello sacrificato, in modo tale da rendere legittima l’intera condotta posta in essere dall’agente, così da poter affermare che, provata l’impossibilità di tutelare due o più beni giuridici, l’ordinamento mostra maggior interesse per quello più rilevante, pertanto, la condotta tipica volta a salvaguardare questo, assume liceità. Si evince quindi un ragionamento interamente votato ad una comparazione oggettiva tra beni, non potendosi in queste cause di esclusione della punibilità individuare quel necessario fattore soggettivo che invece assume centralità nelle scusanti.

Con riferimento alle cause che escludono la colpevolezza dell’agente, la differenza si delinea con riferimento al meccanismo applicativo caratterizzante le due categorie.

La colpevolezza, infatti, rappresentando quel momento valutativo finalizzato ad accertare la personale responsabilità di un soggetto rispetto ad un accertato fatto tipico ed antigiuridico, è un giudizio individualizzante, un giudizio, cioè, rivolto proprio a quel particolare soggetto agente. Le cause scusanti invece, nonostante siano ispirate dal medesimo principio, e cioè quello di esigibilità della pretesa normativa, come già anticipato, rispondono ad un sistema applicativo caratterizzato da un’oggettiva presunzione. In altri termini, il legislatore, con anticipo, determina tutte quelle situazioni dalle quali, a prescindere da un individualizzante accertamento concreto, si ritiene ragionevolmente impossibile conformarsi al diritto. Non è necessario indagare sull’effettiva esistenza di uno stato emozionale o in generale soggettivo tale da non percepire il “richiamo” dell’ordinamento, ma è sufficiente che oggettivamente si verifichino le condizioni indicati dalle disposizioni rispondenti a questa logica.

Per utilizzare l’esempio del 384 c.p., è sufficiente che chi abbia agito, commettendo uno dei reati ivi previsti, lo abbia fatto per salvare sé stesso o un congiunto, perché il legislatore presume che questa circostanza sia idonea a rendere inesigibile la pretesa normativa, non rendendosi necessaria una valutazione individualizzante sulle reali possibilità dell’agente di adottare la condotta lecita.

Per questo, in conclusione, possiamo affermare che tutte le cause di non punibilità che rispondano a questa logica siano suscettibili di essere ricondotte in un’unica categoria, le scusanti, che, nella costruzione dogmatica del reato, acquisterebbe uno spazio autonomo.

Dott. Matteo Pietrangelo – Studio Legale Tolesino

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