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Illegittimo il licenziamento disciplinare di un lavoratore che minaccia un proprio collega senza passare alle vie di fatto; anche se ha commesso un reato – sito Studio Legale Tolesino – Avvocato Molise – Campobasso – consulenza anche online

reato e licenziamento Avvocato Campobasso Molise

Avvocato Campobasso – la minaccia è un reato, ma non giustifica il licenziamento quando…

La Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza n.° 12232 del 20 maggio 2013, ha stabilito che la punibilità di un lavoratore dipendente in sede penale, a fronte della commissione da parte di quest’ultimo di un reato, non può essere posta a sostegno di un licenziamento disciplinare in quanto occorre effettuare una valutazione autonoma e indipendente sulla idoneità del fatto a integrare gli estremi di un licenziamento per giusta causa o di un licenziamento per giustificato motivo.

A stabilirlo è stato, appunto, il Giudice di legittimità con la sentenza in oggetto con la quale è stato giudicato il caso di un licenziamento disciplinare intimato ad un lavoratore colpevole di aver minacciato un suo collega in occasione di una lite verbale.

Difatti, la Corte di Cassazione, con sentenza n. 12232 del 20 maggio 2013, ha affermato che “ai fini della legittimità del licenziamento disciplinare irrogato per un fatto astrattamente costituente reato, non rileva la valutazione penalistica del fatto né la sua punibilità in sede penale, né la mancata attivazione del processo penale per il medesimo fatto addebitato, dovendosi effettuare una valutazione autonoma in ordine alla idoneità del fatto a integrare gli estremi della giusta causa o giustificato motivo del recesso”.

Il caso sottoposto al vaglio degli ermellini ha riguardato un diverbio tra colleghi di lavoro. Tale diverbio consistito solo in una condotta qualificabile penalmente come reato di minaccia, tuttavia, non era stato seguito da fatti concreti e non aveva arrecato grave perturbamento, pertanto l’episodio non risultava caratterizzato dagli elementi assunti dal CCNL come presupposto per la configurabilità di un’ipotesi di licenziamento in tronco.

La Società datrice di lavoro, tuttavia, nel presentare ricorso in Cassazione sosteneva che la minaccia integra un reato e che quindi la condotta del lavoratore deve essere valutata a prescindere dall’effettivo verificarsi in concreto della turbativa.

La Corte di Cassazione, invece, nel respingere il ricorso presentato dalla società datrice di lavoro, ha affermato che la gravità del comportamento del dipendente, ai fini della valutazione sulla legittimità del licenziamento per giusta causa, deve esser compiuta tenendo conto dell’incidenza del fatto sul rapporto di fiducia che lega il datore di lavoro al lavoratore, delle esigenze derivanti dall’organizzazione produttiva e delle finalità del regolamento disciplinare adottato nell’ambito di tale organizzazione. Pertanto, la valutazione tesa a stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o meno gli estremi di una giusta causa di licenziamento deve essere autonoma rispetto al giudizio che verrebbe espresso in sede penale sul medesimo fatto.

D’altro canto, qualche tempo prima anche per i giudici di merito la frase “Ti metto in un pilastro” pronunciata da un collega all’altro nel summenzionato diverbio insorto tra i due, avuto riguardo al suo concreto svolgimento, così come risultante dalle emergenze istruttorie non integrava, con riferimento anche ai precedenti disciplinari e alle previsioni contrattuali, una giusta causa od un giustificato motivo di licenziamento.

Dunque, con la sentenza in oggetto la Suprema Corte ha sostanzialmente ritenuto che “lo stabilire se nel fatto commesso dal dipendente ricorrano o meno gli estremi di una giusta causa di licenziamento ha pertanto carattere autonomo rispetto al giudizio che del medesimo fatto debba darsi a fini penali”.

Tradotto in termini più semplici il giudizio sulla legittimità del licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo è del tutto autonomo ed indipendente dal giudizio che sullo stesso fatto si avrebbe in sede penale e deve avvenire alla stregua della ratio del dettato codicistico di cui all’art. 2119 c. c. .

La sentenza impugnata, proseguono i giudici di legittimità, è sotto il profilo in esame, corretta avendo i giudici di appello proceduto, con riferimento al comportamento addebitato al lavoratore astrattamente costituente reato, ad un autonoma valutazione dello stesso ex art. 2119 c. c. Inoltre la Corte di merito, contrariamente a quanto asserito dalla società ricorrente, non ha affatto ignorato, nel procedere all’apprezzamento ex art. 2119 c.c. del fatto addebitato, né le precedenti mancanze disciplinari, né gli allegati similari episodi, per un verso escludendo la rilevanza dei precedenti disciplinari non avendo questi nessuna correlazione, per tipologia e gravità, con l’episodio che ha dato luogo al licenziamento, e dall’altro ritenendo che i cd. episodi similari non integrano, sulla base della espletata istruttoria, circostanza confermativa dell’unica mancanza contestata.

La Corte di Cassazione, dunque, pronunciandosi sul caso in esame non ha sostanzialmente mutato il suo precedente orientamento.

La stessa, infatti, tempo addietro si era pronunciata su un caso simile (cfr. Cass. Sezione Lavoro sent. n.° 23289 del 3 novembre 2009) allorquando aveva stabilito che il lavoratore che in ufficio lancia il telefono contro un collega non può essere licenziato. Il caso aveva riguardato un lavoratore che si era visto licenziare dopo che, a seguito di un dibattito con un collega (consigliere aziendale) e alla presenza di testimoni, si era rivolto a quest’ultimo insultandolo e lanciandogli una cornetta del telefono.

Il lavoratore, a seguito di ricorso contro il licenziamento, era stato reintegrato sul posto di lavoro dalla Corte di appello di Palermo ma, l’azienda proponeva ricorso in Cassazione sostenendo che l’accaduto costituiva una “giusta causa” di licenziamento in quanto idoneo ad incrinare il rapporto fiduciario che deve esistere tra datore e lavoratore.

Anche, in questo caso, respingendo il ricorso la Corte aveva evidenziato che ”dopo aver esaminato le deposizioni degli impiegati presenti al fatto e del consigliere offeso, escluso che il tenore della frase pronunciata dal lavoratore potesse assumere una valenza ingiuriosa, e rilevato che il lancio della cornetta non aveva il contenuto di violenza o di minaccia nei confronti di un collega ma era da ascriversi al momentaneo stato di esasperazione, il comportamento addebitabile al lavoratore pur se riprovevole per i suoi connotati di volgarità e inurbanità, non era comunque tale da giustificare una sanzione espulsiva”.

La Corte continuava – nella richiamata sentenza – affermando che gli stati d’ira temporanei e le parole volgari rivolte ad un collega non ledono il rapporto fiduciario con l’azienda nè tantomeno possono compromettere l’affidamento che il datore di lavoro ha sul futuro corretto adempimento delle obbligazioni lavorative, pertanto non possono essere assunti come base per un licenziamento. Un simile comportamento può essere compreso come momentaneo stato di esasperazione e, pertanto non può costituire la base per un licenziamento.

Avv. Gianluca Longo

Fonti bibliografiche:

  1. http://www.impresalavoro.eu/lavoro/minacce-tra-colleghi-e-licenziamento.html

  2. Cassazione: illegittimo licenziamento del lavoratore che minaccia un collega senza passare alle vie di fatto. Anche se ha commesso reato
    (StudioCataldi.it)

  3. http://www.lavoroediritti.com/2009/11/cassazione-il-lavoratore-che-lancia-il-telefono-al-collega-non-puo-essere-licenziato/

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Questa voce è stata pubblicata il 26 Maggio 2013 da con tag , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , , .